“Essere tralcio”: il commento al Vangelo domenicale a cura di don L. Trivini

2 Maggio 2021

Essere tralcio: S. Giovanni usa questa similitudine per descrivere la nostra unione vitale con Cristo. Sul frontone, all’ingresso del tempio di Gerusalemme era scolpita una vite che allungava i suoi tralci lungo tutta la lunghezza della travatura. Era il simbolo di Israele, vigna di Javhè, coltivata con cura e salvaguardata dai nemici che spesso volevano distruggerla, di cui Dio si era reso garante. Anche noi prendiamo questa similitudine con simbolo della nostra unione con Cristo. Potrebbe sembrare una condizione naturale e scontata, ma se ci fermiamo a rifletterla un attimo vediamo che ci rivela degli aspetti profondi e meravigliosi della nostra situazione.

Anzitutto è difficile sentirci “tralci” perché noi tendiamo a voler essere “vite”. Cioè non vogliamo dipendere da qualcuno o da qualcosa; vogliamo essere indipendenti, gestori in prima persona della nostra condizione. Abbiamo la convinzione che venga sminuita la nostra dignità se siamo dipendenti. Ci dimentichiamo che la nostra piena dignità viene affermata nel riconoscere la verità di cui facciamo parte, non inventando qualcosa che non esiste. Se la nostra condizione è dipendente perché siamo creature e prendiamo atto che la vita non è nostra, ma ci è stata data, è solo prendendo coscienza di questa realtà che noi possiamo esprimerci pienamente, altrimenti ci appoggiamo a qualcosa di inesistente. L’essere tralcio allora non è un disonore o una menomazione, ma prendere atto della nostra realtà e quindi cercare la nostra vera identità. Il tralcio vive della stessa vita della vite. E’ vero che all’inizio ci sta la vite, ma è altrettanto vero che quello che è della vite è anche del tralcio: il tralcio non vive da solo senza la vite, ma anche la vite non vivrebbe da sola senza il tralcio. Se la vite potrebbe raffigurare la stabilità della pianta, il tralcio ne diventa la sua espressione più avanzata. Non a caso il frutto è sul tralcio.

Fuori della similitudine possiamo riflettere sul rapporto tra Cristo e noi. Il definirsi vite non l’ha indotto a separarsi da noi perché si ritiene più importante, il primo della classe, ma a questa similitudine è arrivato per descrivere la sua totale unità con noi: tra Lui e noi c’è la stessa vita che scorre in Lui: lo Spirito che ha costituito Lui primogenito e noi fratelli e coeredi. Questo ci dice che la pienezza della vita l’abbiamo solo in comunione con Cristo. S. Paolo ci ricorda che tutto il nostro vivere è in Cristo. Questa consapevolezza allarga meravigliosamente le nostre prospettive: ci rende capaci di partecipare direttamente al respiro di Dio nel rapporto con le persone, le cose, gli avvenimenti; ci rende capaci di creare con Lui; ci rende capaci di “dominare nel senso vero del termine”.

Da ultimo, ritornando alla similitudine, (e non è una cosa secondaria), non è un caso che il frutto sia sul tralcio e non sulla vite. Significa che nel progetto di Dio la continuazione della vita è in noi discepoli-tralci. Ma dobbiamo sempre ricordare che non sono frutti nostri, bensì voluti e costruiti da Dio. Noi siamo i portatori, i responsabili, coloro che possono esaltare nel mondo il dono di Dio. Dio non solo non ci umilia, ma accetta di farsi conoscere attraverso i frutti che i suoi discepoli sanno portare in questo mondo.