Il filosofo Cremonesi: “L’isola, l’isolamento e l’incapacità di fare esperienza”

11 Maggio 2020

L’isolamento è un concetto che porta con se quello di isola. Una terra sognata da molti e, allo stesso tempo, una terra dalla quale scappare. Lo sa bene Ulisse che desidera, per circa 20 anni, di tornare alla sua isola e al suo isolamento, dopo anni di guerra e di peregrinare, magistralmente raccontati da Omero. Allo stesso tempo lo sa bene Robinson Crusoe che, invece, dalla sua isola e dal suo isolamento non vede l’ora di fuggire.

In questi tre mesi – e nei prossimi a venire “a maglie larghe”, si spera – siamo (stati) Ulisse o Robinson? Non è questione da poco perché “da soli”, ebbe a dire Carmelo Bene al “Costanzo Show” nel 1994, “è una lotta”. Siamo una società liquida (Bauman) e celere; la nostra è l’epoca del “turbo”, della connessione veloce, del “tutto e subito” (diverso da quello che imperava negli slogan degli anni ’60 e ’70), del 5G e dell’alta velocità. Fermarsi è un dramma. Una mail che tarda ad arrivare può compromettere una giornata di lavoro. Una diretta streaming che “balbetta” può bloccare lavori, commissioni, ordini e, dunque, mandare in tilt un sistema di lavoro. Scadenze e previsioni temporali sono gestite ormai con i “Big Data”, i grandi flussi di informazioni, e nulla deve essere lasciato al dominio del caso. Tutto deve essere gestito, ordinatamente, con i diagrammi di Gantt, o con i piani-lavoro. Nulla viene lasciato al caso e tutto si ottimizza. Tranne, per fortuna, la vita…

Basta una forma di vita, un modo d’essere direbbe Spinoza, per mandare il tutto in tilt e farci tornare al dilemma iniziale: Ulisse o Robinson? Il perché è presto detto. Una forma di vita – un virus – ci porta all’isolamento e a far ritorno alle nostre isole. Immagino ognuno di noi far ritorno a casa, in quei giorni di marzo, con la consapevolezza mista dei due eroi: sono arrivato alla mia casa e ci dovrò restare per … quanto tempo? Ecco il dramma della programmazione… Il primo vero dramma che abbiamo vissuto e con il quale abbiamo dovuto convivere: per quanto tempo?

Il secondo ostacolo è stato quello del “e cosa facciamo”? Il “tempo libero” è tale se c’è, a monte, del “tempo occupato” da qualcosa o da qualcuno. Non può, per definizione, che essere “tempo libero” se viene imposto e dettato da altri: il lavoro, gli impegni e le scadenze. Ecco dunque, cosa succede invece se queste scadenze non ci sono più? Il tempo è ancora definibile come “libero”? E da cosa? Ed ecco quella che potremmo definire l’angoscia – quel sentimento che un filosofo tedesco metteva al centro dell’esperienza esistenziale – che entra prepotentemente nelle nostre vite. Personalmente amo e ritengo molto più interessati le analisi esistenziali dei filosofi francesi – pensatori liberi da ombre lunghe e ingombranti – e credo che più che parlare di angoscia ci sia da trattare la questione in termini di spaesamento. Esser (stati) gettati fuori dalla propria esistenza quotidiana arrivando, così, alla nausea… Ci sentiamo e ci siamo sentiti stranieri ed estranei alla e nella nostra esistenza quotidiana. Siamo tornati alla nostra isola, finalmente, ma quella non era la nostra isola a cui eravamo abituati. In realtà non eravamo nel nido che ci da protezione quando torniamo la sera “dall’alto mare aperto” – parafrasando il Poeta – del nostro vagare quotidiano. Questa sensazione ha un nome: Walter Benjamin la chiamava “incapacità di fare esperienza”. Questo ritengo sia il vero dramma che abbiamo vissuto..

Ci siamo resi conto che ormai abbiamo uno e un solo modo di “far esperienza”: quello imposto dal ritmo della macchina della nostra quotidianità, veloce e liquida. “Non si sfugge alla macchina” scrive Kafka ne Il Processo e questo è il giudizio a cui ci sentiamo esposti nella nostra esistenza isolata: sappiamo davvero utilizzare questo tempo non più libero, ma liberato? Utilizzare… ecco ancora una volta che non si sfugge all’unico modo che abbiamo di fare esperienza. Il tempo deve sempre essere comunque utile a qualcosa… Sono rimasto colpito da chi scriveva sui social “non riesco a leggere”, “non riesco a stare concentrato”, “non riesco a non far nulla”. Il tempo ‘finalmente’ libero, e cioè liberato, non lo abbiamo saputo gestire. Abbiamo fatto ritorno – forzatamente – alla nostra isola… ma qui, nella “nostra” isola, c’era questo nuovo tempo che avevamo a disposizione, dettato dalle nostre lunghe e infinite giornate di quarantena. In realtà, questo tempo, non lo abbiamo liberato affatto. Lo abbiamo subito. Lo abbiamo buttato e gettato nell’inseguire giochetti, false news, lunghi e inutili commenti a fake news imbarazzanti, sirene in mezzo al mare (senza cera nelle orecchie), ciclopi arrabbiati, fattucchiere ammalianti e mangiatori di loto. Abbiamo preferito gettarci fra le onde di Scilla e Cariddi al posto di puntare verso Itaca dove sapevamo che ad aspettarci c’erano Penelope, Telemaco e Argo. Abbiamo preferito il mare aperto delle finte scadenze – che però è ciò che sappiamo gestire – alla riconquista del “nostro tempo”.

Siamo stati degli Ulisse ancor più sprovveduti del mitico eroe (perché noi avevamo spoiler alla mano) e “smart” Robinson… Forse, ma sono solo punti di vista, c’era da valutare, come ci indicano gli antichi greci, la possibilità di un’isola … e cioè di un modo di concepire il tempo non più come libero ma come vera libertà d’azione e di pensiero. C’era, insomma, da essere come Sisifo, ma mai come questa volta davvero immaginato – come sostiene Camus – felicemente capace di essere libero… Oppure, in ultima istanza, come il guardiano del faro raccontato da Paolo Rumiz nel suo “Il ciclope”: “Nell’isola del faro si impara a decrittare l’arrivo di una tempesta, ad ascoltare il vento, a convivere con gli uccelli, a discorrere di abissi, a riconoscere le mappe smemoranti del nuovo turismo da crociera e i segni che allarmano dei nuovi migranti, a trovare la fraternità silenziosa di un pasto frugale”.