L’Omelia di don Giuseppe Bergamaschi nella notte di Natale 2019

28 Dicembre 2019

Miei cari castellani, e figli e figlie, fratelli e sorelle, e padri e madri, perdonate la familiarità in questa santissima notte, ma spero che dopo poco più di 10 anni di vita insieme a voi, mi potrete perdonare questa confidenza! E allora, come in famiglia, come avete fatto in questa serata, diciamoci le cose sincere: facciamo fatica a credere al Natale!

Già sappiamo che cosa si racconta stanotte (l’abbiamo sentito poco fa dalla proclamazione del Vangelo!), già sappiamo degli annunci e auguri di bontà, di pace, di felicità, ma ci crediamo davvero? Ci crediamo davvero che Gesù porta tutto questo? O siamo disillusi? Quanti anni l’abbiamo celebrato, cantato il Natale? E che cosa è cambiato nella nostra vita, nella nostra società? In meglio o in peggio?

Sono entrato nelle vostre famiglie, ho ascoltato le preoccupazioni per il lavoro, per l’andamento economico, per una vita sociale che non sembra più solidale, ma incattivita, chiusa, indifferente, ognuno va avanti per sé stesso. La difficoltà ad andare d’accordo nelle famiglie, nelle e tra le associazioni che si moltiplicano perché si dividono, ad andare d’accordo anche nelle aziende tra operai, e con le maestranze; la difficoltà ad andare d’accordo pure nella nostra parrocchia, tra i gruppi e le associazioni, anche tra le persone … che pace e amore è questo? E allora un giovane mi chiede: ma il Natale è vero? O anche voi non ci credete? Siamo qui solo stanotte per emozionarci un po’ ma poi tutto torna come prima? E poi, siamo sinceri: ho l’impressione che tanti di noi vivono “questo momento presente” di crisi con un atteggiamento depressivo dovuto alla recessione, cioè senza speranza! Molti sono spoetizzati perché vedono il nostro paese andare indietro più che progredire! Voi lo sapete meglio di me, me lo dite. Ci sono dei segnali, come dei simboli, che dicono questo: chiusura di moltissimi laboratori, di piccole o grandi aziende, un teatro chiuso da molti anni, una scuola superiore chiusa e le altre che ci sono con tanti bisogni inevasi, una banca persa … e qualcuno, per questo clima negativo, ha smesso anche di venire in chiesa o di partecipare a tutto ciò che la parrocchia propone, e mi sembra che di proposte ce ne siano, perché, si dice, tanto non conta niente, non cambia nulla, e così spesso i banchi, specie dai giovani, restano vuoti. Pare non esserci abbastanza speranza!

Allora, castellani cari, cosa vuol dire fare Natale, adesso, qui, in questo contesto di vita?

Siamo quasi scettici di fronte a certi discorsi e prediche di Natale, abbiamo una reazione di fastidio di fronte alle solite parole: amore, pace, gioia e così via. Ci sono troppe cose che non vanno nella vita (quando poi la salute è messa a repentaglio e arriva sorella morte, specialmente nelle persone giovani, sembra che sia la fine di tutto!), ci sono troppi problemi nella società, nel mondo (salute, famiglia, figli, lavoro, politica, ecologia, e adesso ci si mette pure il clima … e poi dall’ufficio anagrafe segnalano che mille persone pur residenti a Castel Goffredo, tra giovani e adulti di mezza età, vivono e lavorano all’estero! Appena si può si va via!). E questo finisce per lasciarci addosso un senso di peso, di angoscia, di scontentezza, per cui diventa difficile capire e sentire in modo autentico la gioia del Natale!

Ma, carissimi, proviamo a riandare al Vangelo! Quello che abbiamo appena ascoltato! Maria e Giuseppe, questi sposi, marito e moglie, ricchi di sogni e progetti, avrebbero avuto molte ragioni di essere scontenti e amareggiati. Potevano prendersela con il governo di Roma, come facciamo noi, che aveva ordinato il censimento e li aveva costretti a lasciare il loro lavoro e la casa per andare a Betlemme; potevano prendersela con il destino, (quando non sappiamo a chi dare la colpa ce la prendiamo col destino!), che li aveva fatti partire da Nazaret proprio nei giorni in cui Maria doveva partorire; potevano prendersela con Dio stesso, che, se davvero voleva mandare suo Figlio nel mondo … rovinando anche i loro piani di fidanzati, poteva almeno provvedere perché quel Figlio nascesse in condizioni meno disagevoli, al punto che è nato in una stalla in una greppia perché non c’era posto per loro nell’alloggio; potevano prendersela con Erode, il dittatore di turno, che li ha costretti in fretta e furia ad emigrare e scappare in Egitto. Avevano tutte le ragioni per lamentarsi, per non crederci, come noi!

Eppure proprio quel primo Natale in quelle condizioni, in un mondo che, allora come oggi, era pieno di miserie di ogni genere, viene presentato dal Vangelo come “una grande gioia” per tutti gli uomini. Se poi pensiamo che quel bimbo morirà a Gerusalemme poco più che trentenne, crocifisso, la cosa è ancora più paradossale!

Ma perché è una grande gioia nonostante tutto? Perché quel bambino, nato in quelle condizioni in cui noi avremmo detto che “ tutto andava male”, è il grande regalo di Dio a tutta l’umanità, è il segno concreto della “grazia di Dio che porta salvezza a tutti gli uomini” (lettera di Paolo a Tito), è la garanzia definitiva che, malgrado tutti i mali che si possono incontrare nella vita, ogni esistenza val la pena di essere vissuta, se Dio ha scelto di farsi uomo così. Infatti ogni male del mondo è stato redento da quel bimbo, Dio fatto uomo, che si è accollato la nostra umanità così povera e misera, sicché questa non è più estranea a Dio, ma è diventata sua! Malgrado tutte le apparenze in contrario, malgrado tutte le nostre perplessità e paure, da quando Gesù è nato a Betlemme c’è più bene che male, perché in questo mondo, e quindi anche a Castel Goffredo, è venuto ad abitare Lui, il Figlio di Dio in mezzo a noi, come qui stanotte Lui è in mezzo a noi, Dio con noi, il Vivente in quanto Risorto! E quindi sempre nasce in noi e tra noi, quando ascoltiamo la Sua Parola, ci nutriamo del suo corpo e sangue, nella fraternità della comunità qui radunata, nei poveri che cerchiamo di accogliere.

Per questo, castellani carissimi, bando allora alla scontentezza, magari alla amarezza e ai rimpianti dei bei tempi passati, ma apriamoci con Lui, Gesù in mezzo a noi, alla speranza! Con Lui tutto è possibile, come disse l’angelo alla Madonna che si interrogava su come fosse possibile che divenisse Madre del Signore: “a Dio tutto è possibile”, a condizione che ritorniamo ad ascoltarlo, ad ascoltare la Sua Parola, come Maria: “ecco sono la serva del Signore, avvenga di me secondo la tua Parola”. Se ritorniamo a fare di Lui il centro della nostra vita; se lo ascoltiamo nelle decisioni che dobbiamo prendere, se ci lasciamo guidare dai suoi insegnamenti nel modo di lavorare, di fare famiglia, di rapportarsi tra di noi, di vivere in comunità secondo il suo stile, che ci ha insegnato a Betlemme: lo stile della piccolezza, delle piccole cose quotidiane fatte con amore e per amore. Non secondo il proverbio: ‘piccolo è bello’; anzi, siamo chiamati a crescere. Ma secondo la logica evangelica del bambino: “Se non ritornerete come bambini, non entrerete nel Regno dei cieli”, cioè ritornare ‘piccoli’ e quindi miti, umili come un bambino che chiede aiuto, il latte, i pannolini, chiede amore, attenzione. Il bisogno è sacrosanto e ci apre agli altri, alla relazione. Non è l’uomo che non ha bisogno di niente e di nessuno la persona realizzata, ma chi chiede aiuto, perché chiama amore; questa è la risposta di Dio alla logica del mondo che ci abbaglia con le sue grandezze, come ci ricorda il Vangelo:” Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento su tutta la terra”. Già allora si era realizzata la globalizzazione (tutta la terra in mano all’imperatore!). Dio risponde con un bimbo per cambiare le cose! Così si cambia! Così rinasce la speranza! Anche oggi siamo abbagliati dalla potenza della tecnologia e dei colossi dell’economia globale. Poi però piangiamo i lavoratori lasciati a casa perché si delocalizza; oppure confidiamo nella iper tecnologia e poi ci accorgiamo che siamo super controllati in ogni nostro passo. E la libertà dov’è? E chi più ne ha più ne metta. Solo un piccolo ci salverà, cioè vivere, fare le cose con lo stile di Dio: la piccolezza, come tra poco in un po’ di pane e di vino. Vuol dire allora: mantenere l’umiltà, aver bisogno degli altri, godere della spontaneità, avere una povertà di spirito. E’ la via dell’infanzia spirituale (una grande via di santità aperta dall’esperienza di Santa Teresina del Bambin Gesù). Ma questa via dell’infanzia spirituale è un compito per adulti (non è puerilità!) che sanno abbandonarsi come figli nelle mani del Padre, e che sanno di non potersi dire mai arrivati (altro che declamare che ormai niente ci fermerà, come negli anni del boom economico, pensando di essere arrivati al massimo del benessere!). Perciò su questa strada della piccolezza gli adulti coltivano stupore, gratitudine, fraternità, audacia nelle difficoltà, consapevolezza di avere tempo, come un bimbo che sa di avere futuro davanti a sé, speranza appunto! Se non è così siamo già vecchi, indipendentemente dall’età, e non andiamo più da nessuna parte. Allora, davvero, castellani carissimi, è Buon Natale con questo bimbo che ci apre alla Speranza.

Alziamoci, risolleviamoci con Lui!