Pandemia e impresa: un disastro ma anche un’opportunità per ripartire

15 Giugno 2020

“Ripartire” è la parola chiave di questi mesi. Non si sente altro che questo termine in ogni angolo. Ma come si riparte dopo una pandemia globale che ha svuotato Piazza San Pietro nel giorno di Pasqua?

Come imprenditore, ho imparato che ogni crisi è necessaria. Ti spinge a osservarti: come individuo, come azienda e come Paese. Ti spinge a prendere consapevolezza di punti di debolezza che nemmeno sapevi facessero parte di te. E tutti sappiamo che dalla consapevolezza derivano due possibili scelte: Fare o Ignorare.

Oggi ogni imprenditore si trova davanti a questo bivio. Da un lato andare avanti come sempre fatto sperando che i lividi si riassorbano con gli anni, dall’altro ripartire cogliendo ciò che non ha funzionato, cercando di fare il possibile per correggere il proprio modello di business. E si, scritta cosi la risposta sembra molto facile. La verità è che cambiare comporta sempre un rischio. Ma cosa è più rischioso oggi dell’essere imprenditori?

Cosa è più rischioso del creare posti di lavoro in Italia? Del trovarsi – soli – di fronte alla scelta di salvaguardare la salute dei dipendenti a discapito della salute dell’azienda (e quindi dello stipendio dei propri dipendenti)? Perché è ovvio, se chiudi, non incassi. Ma “non incassare”, per un imprenditore, significa non avere il denaro per pagare gli stipendi ai propri dipendenti che hanno affitti, mutui, rate delle scuole dei propri figli da pagare. Significa non avere denaro per pagare i fornitori che a loro volta hanno dipendenti con famiglie. Significa non versare tasse con cui lo Stato paga gli stipendi agli insegnanti, ai medici, agli infermieri. Ma queste cose nessuno le dice. E’ più facile fermarsi al pregiudizio anti industriale secondo il quale gli imprenditori sono i cattivi a prescindere e pensano solo al proprio portafogli.

Quindi, un imprenditore, di cosa ha bisogno oggi per poter cambiare il proprio modello di business?

Beh, prima di tutto dobbiamo partire da noi stessi. Dobbiamo smettere di porci come cantori del passato, e iniziare a ritenerci costruttori di futuro. Dobbiamo restare sempre dalla parte dei generosi piuttosto che da quella degli ingrati, ammirare le aziende che funzionano bene e cercare di imparare da queste senza invidia. Dobbiamo fare rete ed aiutarci l’un l’altro.

In secondo luogo abbiamo bisogno di un Governo “sul pezzo”.

Che creda in chi lavora. Che investa perché si generi un circolo virtuoso che consenta alle migliaia di piccole e medie imprese italiane di lavorare e creare nuova occupazione. Che investa e fornisca garanzie finanziarie per sostenere l’eccellenza della manifattura italiana, che compete ogni giorno con aziende all’avanguardia di tutta Europa e di tutto il mondo. Che lavori ad un progetto nazionale ed Europeo a lungo termine perché si fermi la concorrenza Europea e si inizi, come Europa, a competere con i grandi paesi come la Cina, l’India, gli Stati Uniti.

Che creda nei giovani italiani. La scuola e la formazione deve essere in cima all’agenda del Governo: come priorità economica e concettuale. I nostri ragazzi devono essere incentivati a studiare, a imparare, a fare, a sentirsi cittadini attivi di un mondo che viaggia veloce.

Che progredisca. Da sempre si parla della troppa burocrazia italiana. E’ il pilastro portante di ogni programma elettorale che si rispetti. Eppure la burocrazia continua ad espandersi, continua a imbrigliare, continua a fermare, continua a bloccare. Ferma idee, ferma progetti, ferma percorsi, ferma sviluppi. Ferma il Paese.

Un paese che si rinnovi. Da quanto tempo si parla di “Digital Revolution” in italia? Si è sviluppato un intero settore privato diretto ad assistere le imprese nella rivoluzione digitale. Nelle aziende sono state introdotte decine di figure professionali nuove, interamente dedicate all’IT e alla gestione di piattaforme digitali. Eppure tutto questo si appoggia ad infrastrutture vecchie, ad un sistema fermo agli anni Duemila. La maggior parte delle città Italiane ancora non è cablata. E questo è solo uno degli esempi. Penso alle scuole, agli ospedali, alle strade, ai ponti, alle ferrovie. Le imprese possono anche proseguire nella propria trasformazione, ma fino a dove può spingersi un treno senza delle rotaie sulle quali viaggiare?

Un governo che creda nella cultura. I nostri artigiani, i nostri commercianti, i nostri ristoranti, i nostri bar, i professionisti, gli artisti, le attività culturali, i cinema, i teatri, i musei, i centri sportivi sono il motore della cultura italiana. E proprio questo, la linfa vitale delle nostre comunità, oggi si trova di fronte ad una crisi mai vista, nella quale purtroppo lo Stato è in grave ritardo. Tutte queste attività stanno sostenendo ingenti spese per garantire la sicurezza loro e dei propri clienti a seguito della pandemia. Il governo ha l’obbligo di intervenire con un aiuto immediato a fondo perduto, tagliando la burocrazia che soffoca le attività.

Concludendo, questa pandemia è stata un disastro per tutti, ma può essere anche un’opportunità per ripartire mai sperimentata prima d’ora. Papa Francesco recentemente ha detto che non torneremo più come prima: uscire da questa crisi peggiori o migliori dipende solo da noi. Dalla nostra capacità di non piangerci addosso, ma piuttosto rimboccarci le maniche e andare avanti. Uniti.

In questo modo, come diceva Baden Powel, potremo lasciare il mondo “un po’ migliore di come l’abbiamo trovato”.