“Lasciare per essere”: il commento al Vangelo domenicale di don L. Trivini

23 Gennaio 2021

Leggendo il Vangelo, non è raro trovare affermazioni o posizioni di Gesù completamente opposte alle nostre. Qualche volta ci destabilizzano, molte altre volte non ce ne facciamo troppa meraviglia. L’atteggiamento tenuto dagli Apostoli nel brano della liturgia di questa domenica ne è un esempio lampante: Gesù passa sulla riva del lago, vede degli uomini intenti nel loro lavoro di pescatori, li invita a seguirlo ed essi, lasciato tutto, lo seguono. Storicamente forse non è avvenuto con questa cadenza schematica, quasi automatica “lasciate le reti e il padre con i garzoni, lo seguirono”. Può darsi che abbiano anche tergiversato, che qualcuno abbia discusso … non lo sappiamo. Sta di fatto che tutti gli Apostoli hanno lasciato casa, strumenti di lavoro, amici ed hanno seguito il Signore. Perché l’hanno fatto? Non penso che avessero tanti interessi; che avessero calcoli più o meno palesi da avanzare. Forse qualcuno aveva conosciuto Gesù all’inizio della sua predicazione e, si sa, l’inizio è sempre pieno di entusiasmi; qualcuno era confermato dalla testimonianza di Giovanni Battista. Però da tutto l’insieme del racconto possiamo dedurre che non hanno rinunciato alle loro cose per arricchire altri; non hanno dato ad altri ciò che hanno rinunciato; hanno solo “lasciato”.

Solitamente noi ragioniamo in modo inverso; abbiamo bisogno di avere sempre di più; la nostra posizione nella società è determinata da quello che siamo riusciti ad accumulare in denaro, ricchezza e potere. Gli apostoli forse nel momento nel quale hanno scelto di seguire Cristo non erano del tutto consapevoli, ma certamente non l’hanno seguito per motivi come i nostri (ricchezza, prestigio, potere ..) e quindi possiamo certamente dedurre che il Signore li ha chiamati a realizzare la loro identità. Potrebbe anche essere che qualcuno abbia sperato in qualche successo. Il seguito del Vangelo ce lo testimonia (l’episodio dei due fratelli Giacomo e Giovanni che chiedono di stare uno alla destra e l’altro alla sinistra nei Regno dei Cieli … oppure quando Gesù li sorprende mentre stavano parlando di chi sarebbe stato il più grande … e lui risponde mettendo in mezzo al gruppo un bambino come esempio da seguire). Se però alziamo appena la nostra attenzione ci accorgiamo che la richiesta del Signore non include una ricompensa, ma la realizzazione della loro identità: “Sarete pescatori di uomini”. Quindi non un rinunciare per avere, ma un lasciare per essere. Ora viene spontanea una domanda: la nostra identità si realizza “lasciando” o “possedendo”? E’ vero che la sola ricchezza o il potere non fanno la vita delle persone (quante delusioni dobbiamo registrare a questo riguardo!), ma di fronte ad un mondo che manifesta ed esalta la sola via del possesso è proponibile quella della rinuncia? ha ancora senso nella Chiesa la proposta della povertà evangelica? Qui credo dobbiamo riflettere sul significato del possesso che noi abitualmente pratichiamo e sulla rinuncia che ci chiede il Vangelo.

Il nostro modo di possedere è sancito da leggi inveterate come il diritto di proprietà. Non è male questo. Dice la capacità dell’uomo di dominare la natura. Ma è nel modo di possedere che noi troppe volte mettiamo l’errore: in realtà, di fatto è un soffocare la realtà. Per noi “possedere” equivale ad “avere per noi”, escludendo tutti gli altri; equivale ad avere il potere di essere determinante; equivale a pensare di essere determinanti includendo tutto nel nostro progetto di vita. In una parola il nostro modo di possedere è mettere noi al centro e pensare che tutto il resto debba riferirsi a noi. Questo significa che né le cose, né le persone hanno più vita autonoma e non essendo capaci di soddisfare le esigenze più profonde della persona, saranno motivo di un disagio sempre maggiore. Si verifica qui l’affermazione di S. Agostino: “Il nostro cuore, Signore, non è in pace, se non quando riposa in Te”. Solo il rapporto con la persona è capace di soddisfare le nostre esigenze, il rapporto alla pari dove nasce il dialogo, non quello che è imposto dalla sudditanza dell’uno sull’altro. Lasciare non vuol dire isolarsi, ma riconoscere l’identità dell’altro, anche se è una cosa inanimata (sarà sempre un elemento di rapporto, se non altro di servizio), scoprire la nostra identità che è fatta per vivere rapporti significativi, cioè che rispettano ed esaltano le persone. Quindi scoprire noi stessi. Quella libertà che si scopre lasciando le cose che sempre ingombrano la nostra persona non è semplicemente il senso di leggerezza perché solo, ma il ritrovare il ruolo e l’identità di ogni realtà. Allora scopriremo anche l’armonia che regna nella creazione. Il religioso che vive nella Chiesa il consiglio evangelico della povertà non è uno che ha semplicemente lasciato per vivere senza niente, ma uno che ha rinunciato a costruire la sua vita con dei rapporti inefficaci (quelli con le cose), per realizzare la sua presenza in un mondo pieno di valori. Il riconoscerli è creare armonia fuori e dentro di sé.